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mestizia che aveva nel viso. A un certo moto che egli vide farsi in un punto fra quei miseri, ne scoprì due che si stringevano e si turavano nei panni, quasi per nascondersi a lui. Erano il padre Anacleto ed il signor Fedele, i quali avrebbero dato la loro parte di paradiso, pur di non vedere là in mezzo quel giovine, terribile a loro più d’ogni francese. L’aveva pur detto il pievano di D...! Colui veniva a pigliarsi una vendetta, che niuno, salvo uno scellerato par suo, avrebbe saputo pensare! Così sussurrava il signor Fedele al frate; il quale osando allora fissare un tantino Giuliano, credette di vederlo fare il viso d’un beccaio, che affilando i suoi coltellacci, cercasse nel branco un par di pecore, da scannare le prime. Tremavano come foglie di pioppo; fiato non ne avrebbero avuto tanto da levarsi un bruscolo dalle labbra; e il cuore faceva loro tali schianti nel petto, che sarebbe stata crudeltà non ucciderli d’un tratto, o non mandarli liberi a dirittura.

Un senso, che non seppe mai dire di poi se fosse più di pietà o di spregio, si dipinse sul viso a Giuliano; perchè occhi più umiliati non s’erano mai chinati dinanzi a lui. Se gli archi del chiostro, squallidi come oggi sono, serbassero alcun segno delle occhiate di chi in quella notte credè vederli l’ultima volta, certo sarebbe dei quattro occhi del frate e del signor Fedele. Il giovane si rivolse all’uffiziale francese che stava anch’egli in mezzo alla folla, e gli disse: «Capitano, se me li date, questi due gli acconcio io.»

«Ah! ah! — rispose il Francese — avete le vostre vendette da fare? Già siamo nei vostri paesi! Accomodatevi; due più, due meno non fanno caso.»

Giuliano, in mezzo a un gran bisbiglio, prese quei due, li trasse fuori, attraversò la cucina saccheggiata; e uscendo per la postierla di questa, si mise con essi sulla via che menava alla palazzina del signor Fedele. Camminavano muti, essi dinanzi, egli di dietro; e i disgraziati credevano ad ogni passo di sentirsi dar nelle