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dando da quella parte, verso la quale Anselmo teneva tesa la frusta: e Marta balzata in piedi sul calesse, si faceva colla mano solecchio per vedere meglio quello scompiglio lontano.

«Oh poveretti noi! di lassù a qua non vi sono sette ore di cammino...» cominciava a gridare Anselmo.

«Correte, frustate, chiedetemi il sangue, purchè s’arrivi! — interruppe la signora — mio figlio è lassù... lo sento... lo so... me l’uccideranno! correte..., o Anselmo, non mi volete portare? Oh la guerra! la guerra! anderò da me...!»

E fece atto di discendere dal calesse, ma non le riuscendo ricadde sul sederino, cogli occhi fuori di punto, colle labbra aperte, come se volendo gridare non lo potesse.

Marta, che in quell’abbandono le aveva cinta la vita colle braccia tremanti, la guardava e non sapeva trovare una parola da dirle. E la signora alzando gli occhi in lei si lamentava con un filo di voce: «ah veramente, io fui sempre una donna malvagia, nevvero Marta? Io ho afflitto mio padre, mia madre, mio marito, non ho santificato le feste, uccisi, rubai..., perchè se no, il Signore non mi tormenterebbe in questa maniera!» E fissando il cielo colla rampogna nello sguardo, abbandonava la gota sulla spalla della fantesca sbigottita, e le sussurrava acconciandovisi come una bambina! «oh! come mi sento male!»

Marta accennò ad Anselmo che desse di volta pian piano; dubitando forte di portarla viva a D... tanto era il martellamento che le sentiva dal cuore: e Anselmo obbedì. Coll’anima tutta negli occhi, e nelle mani, reggeva le briglie del cavallo, facendolo cansare ogni ciottolo, ogni fondo, che fosse per dare al calesse qualche scossone: e fu tanta la sua gentilezza di cuore in quel ritorno doloroso, che in un punto della via, in cui la persona della signora rimase tutta irraggiata dal sole già alto e cocente; discese, strappò da certi castagni della ripa molte