Pagina:Abba - Le rive della Bormida.djvu/318


— 312 —

della libertà, erano le istesse che dovevano poi governare la tua vita tanti anni, o dolce maestro mio; quelle istesse di cui mi rimase negli orecchi la romba, cara come la voce tua, e come la vostra, o amici dall’adolescenza; che, se mai vi capitasse tra le mani questo racconto, prego vi rammentiate di me, come io mi ricordo di voi con amore; e vi veggo sempre sulle memori panche della scuola, coi visi di vent’anni or sono.

Nessuno mi si faccia severo per questo viluppo d’apostrofi, le quali non sono poi troppe, per chi novellando si trova con uno de’ suoi personaggi, in luogo di memorie dolcissime. E tiri pur oltre, che io baderò a non farlo uscire spedato per le vie dirotte, che Giuliano ebbe a fare su d’un muletto, pigliato a nolo nella terra di Carcare; piena allora di contrabbandieri, che facevano servizio con pronto animo, a chi avesse viso di perseguitato e di largo spenditore.

L’Apennino, salito al passo lento della cavalcatura, era sembrato interminabile al giovane, che per tutta la via non aveva aperto bocca a parlare colla sua scorta. Ma giunti in cima al giogo, il mulattiere vedendo il viaggiatore nulla maravigliato della bella vista che si parava dinanzi, quasi per consigliarlo che alzasse il capo a vedere, sclamò: — il mare!

Quando io ripenso a quel mattino d’autunno, in cui giovinetto vidi la prima volta il mare, di su quel colle; sempre si rinnova in me ciò che allora provai nell’anima e nella persona, che non seppi mai dire. E però non mi rischierei per nulla ad esprimere quello che provò Giuliano; il quale essendo di tempera da sapersi prostrare collo spirito, alle grandi bellezze della natura; accolta nel petto largamente l’aria di quell’altezza, rimase a contemplare a lungo e muto; poi prese la china come voglioso di correre a tuffarsi, a smarrirsi, in quella lontananza sterminata.

A’ nostri giorni la strada agevole e bella, menzionata sin dal principio di questo racconto, scende da quella