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CAPITOLO XVII.
Giuliano detto addio a Rocco, s’era trovato solo, in parte dove niuno faceva guardia al rigagnolo, che partiva le terre del Re di Sardegna, da quelle della repubblica Genovese. Non gli rimanevano a fare che pochi passi, e poi avesse avuto dietro di sè tutta la cavalleria, che lungo la vallata della Bormida, pasceva i cavalli ungheresi coll’erbe di quei poveri montanari; egli si sarebbe potuto volgere dall’altra sponda, a riderle in faccia; sicuro come a essere a Genova in casa al Doge. Sino a quell’ora, la neutralità della repubblica, era stata rispettata dagli Alemanni.
Ma nell’atto di sconfinare, l’aveva preso un nodo al cuore, e si era fermato come uomo che non può reggersi ritto a tirare innanzi. Forse i proscritti dei tempi di mezzo, si fermavano in quella mesta guisa al confine del loro comune; volgendo gli occhi alle torri, alle cupole della città dond’erano sbanditi: e l’immagine di Guido Cavalcanti sulla via di Sarzana, collo sgomento dell’esilio in viso, e colla malinconia che gli ispirò la ballatetta afflitta e famosa; si forma nella mia mente pensando qual fu Giuliano, in quell’ora.
Quante volte il giovane avrà voluto tornare, e quante avrà ritratto il piede, già mosso a valicare quella poca acqua, che gorgogliava tra i macigni e le radici sterrate dei salici e dei pioppi; egli che aveva corso da Torino