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di vederli sorridere, cavar di sotto le corazze una pizzicata di monete d’oro, e chiedere a lui notizie del babbo che gli aveva dipinti, pover’uomo morto da lunga pezza.

Chi fosse stato a quella ed a qualunque festa da ballo di quei tempi; e volesse farne paragone con quelle dei nostri, direbbe che gli avi si accontentavano di cose, alle quali noi piglieremmo gusto, proprio come a dormire su d’un monte a bocca aperta quando tira vento. Eppure ballavano i nostri vecchi meglio di noi: ballavano gagliardamente, per mantenere agile la persona e l’animo lieto; e passi di terza e di sesta erano segni di buona gamba. Più era stimato chi sapeva meglio trinciar cavriolette, fare riprese, roteare a battuta: si ballassero monferrine, furlane, gagliarde o correnti, bisognava aver petto sano per non trafelare; e smettere prima dell’ultima nota dei suonatori, sarebbe stato farsi canzonare da donne e da fanciulle. Le quali a vederle reggersi colla punta delle dita un po’ di gonna, tanto che i piedi ne uscissero scoperti fin sopra la noce; e col capo chino vezzosamente, strisciarne uno innanzi e l’altro volgere di lato, modeste, agili, rapidissime a fare da un lato all’altro le sale, dovevano essere un desìo; e quello era ballare davvero.

Di balli a C... dopo la venuta degli Alemanni, se ne erano visti molti; ma niuno si rammentava d’aver ballato con estro, come in quella sera. La mezzanotte era passata da un pezzo; e a quest’ora Giuliano e i quattro giovani, scampati all’ira del padre Anacleto, giunsero alla porta del palazzo, e si misero dentro.

Giuliano combattuto da desideri e da paura, si fermò peritoso nell’atrio; lasciando che i compagni salissero quelle scale, echeggianti di festoso bisbiglio. E forse pentito, avrebbe dato di volta, per ripigliare la via che aveva a fare; ma sul muricciolo del cortile stavano cavalcioni alcuni giovani popolani: i discorsi dei quali si mescolarono, come già tante altre cose strane, nei fatti