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E l’edificio del convento biancheggiò, alla loro destra, informe nell’ombra, come una nebbia che si levasse da una fondura paurosa; e i pilastrini dei pergolati, somigliavano ad una processione di morti, che usciti di quella nebbia andassero in volta per penitenza.

Giuliano si fermò a guardare. E se in cambio di Rocco avesse avuto seco un uomo da poter discorrergli assieme; avrebbe parlato delle alte cose, che gli venivano in mente in quella quiete. Pensava con affetto, con doloroso affetto, a Francesco d’Assisi; il quale dalla sua Umbria, era venuto mendicando a trovare quel lembo di terra, a farvi sorgere quelle mura; coll’opera volonterosa degli oppressi, colla promessa del regno dei poveri e di Dio. Pensava a quella promessa mancata, ai secoli venuti dopo il Santo, ai frati vissuti in quel convento, che subito furono più amici dei castellani oppressori, che dei popoli languenti all’ombre di quei castelli; e vedeva l’immagine di Francesco andare afflitta, tra gli spiriti di coloro, che amarono gli uomini e furono grandemente delusi. Quell’edificio che aveva dinanzi, al cui nascimento avevano presieduto chi sa che alti pensieri; gli pareva d’età in età venuto basso, quasi tempio che si muti in ricovero di sfaccendati.

Rocco in piedi, dietro di lui, non osava disturbarlo, ma già gli pareva, che un tratto qua un tratto là, si sarebbero indugiati tanto da non poter passare, di notte, il confine: e cominciando a far segno di spazientarsi, stava per dire aperto di voler tirare innanzi. Senonchè s’udì rompere un gridìo confuso e discorde dal convento; e lumi apparirono alle finestre, e lumi negli orti; indi subito un rumore di pedate come di parecchie persone inseguite si fece sentire; e risa represse, e parole rotte, che venivano per un sentiero del bosco, appunto verso il signorino e lui.

«Chi va di notte? — gridò Rocco, piantandosi dinanzi a Giuliano, e levando in alto il bastone.

«Chetati, villano, o t’ha a coglier male! — rispose