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tavola una sorta di padiglione, che accordandosi coi trofei composti dall’organista del borgo, parevano insieme simboli delle nozze tra il guerriero e la montanina.
La povera Margherita provava di tutto quello sfoggio uno sgomento che non le lasciava aprir bocca; e dopo d’aver aiutato il babbo in quelle opere, non le era parso vero che questi le comandasse di andarsene in camera alla zia; perchè essendo zitella, gli usi del paese non le concedevano di stare alla festa. Essa non se lo fece ridire, e passò da damigella Maria; la quale s’era posta a letto per ammalata, tanto da non essere costretta a sedere a mensa, quel giorno ch’essa stimava più tristo d’un funerale. Raccolta là dentro con essa, Margherita le raccontava le cose vedute in casa; e di quei racconti la cieca sentiva una molestia, come fa la malaria a chi cammina per luoghi palustri.
«Vengono, vengono!» sclamò a un tratto la fanciulla rimescolata.
«Allora tu non ti muovere più di qui; e mentre andranno in chiesa, noi ce ne staremo coll’anima di tua madre, che certo a quest’ora è con noi. Pregheremo che campi almeno te da queste cose; inginocchiati e metti la tua faccia qui sul guanciale, vicina alla mia.»
Così dicendo, damigella Maria, da seduta com’era, si distese, e coll’imboccatura delle lenzuola si coperse il capo per non udire.
Su per le scale, venivano con allegri clamori, ufficiali alemanni, signorelli e dame; e passavano con belle cerimonie nella stanza, dove il signor Fedele soleva dare il suo ballonzolo in carnevale. Ivi i parlari gai, le piacevolezze gentili, si mutarono in un bisbiglio d’ammirazione all’aprirsi d’un uscio; d’onde tra le portiere verdi, fu vista apparire candida e sfavillante come un fiocco di neve, di faccia al sole; franca di passo, accompagnata dalle signore che l’avevano vestita; quella Bianca felice, alla quale, pochi mesi prima, un pittore avrebbe messa in mano una palma, e in capo una corona per ritrarre