Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
— 241 — |
otto ore di cammino, che gli rimanevano a fare per giungere a D...; sentendo in cuore la voce di Ranza suonare con qualcosa di paterno; credeva che per tutta la vallata fossero uomini di quella sorta e di quel pensare. Sicchè l’aria gli pareva piena di spiriti generosi; tutto gli tornava più bello a vedersi in quei luoghi noti: e sin quel dolore domestico, verso il quale correva, gli si faceva più mite.
Man mano che s’avvicinava a’ suoi monti; l’aspetto della campagna, era come se la mano dell’uomo avesse affrettato l’opera della natura. I fieni erano stati falciati; la mietitura fatta anco nei luoghi, ove le messi solevano venire più tardive; dovunque era un casolare, s’udiva un rumore di correggiati, si vedeva un ventolar di biade, e nugoli di pula che andavano all’aria lontani. Appariva, per tutto, la furia di tirarsi in casa i raccolti, anco immaturi; dalla tema dei Francesi, dei quali si diceva che usassero predare, incendiare, struggere ogni cosa. Chiese novelle del paese, e di grosse come quelle che gli davano i montanari, non ne aveva inteso mai. Seppe che di quei giorni erano arrivati in Val di Bormida molti Alemanni, dicevano più di centomila, ma che i Francesi erano molti più. Taluno osava chiedere a lui dove andasse; e sentito che a D..., compiangeva il povero signorino, perchè i repubblicani erano di là a poche miglia. Giuliano non badava a quelle rustiche paure, e tirava innanzi bevendo a petto pieno l’aria delle montagne native.