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e sua madre morente e forse già morta; erano immagini accozzate nella sua mente, a dargli un travaglio da non potersi patire. In somiglianti scompigli dell’animo, l’uomo si lascia governare dal consiglio dell’amicizia, docile come destriero generoso in mezzo alla mischia, che risponde ad ogni cenno del cavaliero: e Giuliano si mostrò pronto a dar retta al suo vicino, tosto che questi ripigliò, parlando basso più di prima:

«Animo, amico, la sventura è madre dei forti; se vi è cara la libertà, se vostra madre volete vederla ancora una volta, su a cavallo! e via in buona ventura.

«Sì, — rispose il giovane levandosi con piglio risoluto — a cavallo! Oste...»

L’oste accorse, ebbe lo scotto, e il nolo che volle del cavallo; e Giuliano uscì, accompagnato nel cortile dall’amico. Dette con lui altre poche parole di congedo, montò in sella; e mentre partiva udissi dire, con voce impressa d’affetto:

«Tornando, rammentate che la casa di Ranza è casa vostra. Addio!»

Codesto Ranza, era della città d’Alba, caldo amatore di libertà e delle cose di Francia, e molto addentro nelle cospirazioni, che si formavano di quella stagione. Egli si scoprì di là ad un paio d’anni, quando i repubblicani condotti da Buonaparte, furono nelle valli della Bormida e del Tanaro, dopo aver vinto a Montenotte e a Cosseria; e diede lena a molti di chiarirsi contro il re. Di lui fa cenno il Botta nelle sue storie, e sebbene lo stimi cervello disordinato, e capace del pari di far perire la realtà per la ribellione, e la libertà per l’anarchia; è giusto alla sua memoria; lo chiama uomo dabbene nè senza lettere; e di certo non disse troppo.

Giuliano l’aveva incontrato a Torino alcune volte, a quei convegni notturni; ai quali di quando in quando, si recavano gli amici delle città piemontesi, a fare accordi, a pigliar novelle, a conoscere nuovi compagni. Ora cavalcando e divorando colla mente, quelle altre sei od