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l’ora del desinare; altri in brigatelle allegre passeggiando, altri gomitoni sugli sporti delle officine a chiacchierarsela cogli artieri alla buona. L’aspetto della città, era allora più severo, e le torri brune parevano stare là ritte, quasi per ammonire i cittadini, che dove non avessero atteso a procacciarsi ogni anno miglior ventura e vivere più civile; il passato con tutto il diavolio di baroni, di bravi, e di foderi medioevali, avrebbe rifatto capolino dalle loro balestriere, e dai loro merli, sto per dire, imbronciati.

Giuliano attraversò la città, e andò a smontare all’altro capo di essa, a quell’osteria chiamata una volta dello scudo di Francia, adesso dei tre Re; quasi per far le cilecche ai francesi, che l’anno prima n’avevano tolto uno dal mondo.

«Questo cavallo ha fatto più di venti miglia!» sclamò lo stalliere cui Giuliano diede le briglie, smontando nel cortile dell’osteria.

«Potete dire anche trenta — rispose questi — abbiategli cura» e lasciando a colui l’animale, passò dal cortile ad una sala terrena, dove si dava da mangiare ai viaggiatori.

Di quei tempi era un bel vivere! dicono i vecchi; e in verità in quelle cittadette mezze nascoste, e quasi dimenticate si stava in apolline. Si desinava nelle osterie semplici e disadorne: e se il viandante, seduto a mensa, levando il capo di sul piatto, non dava dell’occhio in ampio specchio, a vedervi sè stesso sfigurato dai moti plebei del biascicare; in cambio di queste magnificenze, gli era messo in tavola gran bene di Dio, per poca moneta. I vigneti fruttavano a dovizia; e se avesse usato lavare i piedi agli ospiti in sull’arrivare, come ai tempi antichi; lo si avrebbe potuto fare col vino, tanto ve n’era d’avanzo. I prati nudrivano le fienaie, per modo che carne e pane, stavano tra loro a spesa poco diversa; epperò lo osterie erano formicai di gente paesana e di viandanti, sui quali l’occhio materno