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Discorsero un altro poco di Tecla, del signorino, del pievano; e quindi si lasciarono colla buona notte. Don Marco fu accompagnato da Marta nella camera di Giuliano, dove la signora faceva tenere il letto sempre rifatto, perchè a vederlo le pareva che il suo figliuolo non fosse via: ed era una sua dolce illusione. Là il prete vide libri e schioppi in bell’ordine; e avvicinatosi allo scrittoio trovò su certi fogli molti visi di donna abbozzati, che tutti somigliavano a Bianca. «Gran musa l’amore!» disse tra sè, e sedutosi, cominciò a scrivere la lettera a quella gentildonna di Torino, molto raccomandandole il suo antico scolaro. Poi si coricò, e don Apollinare, Giuliano, il signor Fedele, l’Alemanno, Bianca e quella Tecla infelice, forse più di tutti; gli uni con faccia di scherno, gli altri di dolore, gli facevano nella fantasia una ridda, che gli metteva la febbre. Meditando sul fatto di quella sera, e sulle parole dette da Tecla nel punto in cui era stata trovata; finì per credere che Marta avesse ragione, e che la fanciulla fosse davvero innamorata del signorino. Il primo pensiero fu di immischiarsene pel bene di tutti, ma gli parve di sentirsi negli orecchi una gran risata del padre Anacleto, e la voce di lui dirgli: «prete, tu trovavi a ridire di me?» Con questo, contro ogni sua speranza, gli venne il sonno; e in casa la signora Maddalena tutto fu quiete, come fosse stata non abitata.