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«Io avrò agio di parlargli, di supplicarlo a dimenticare quella poveretta: a far sacrificio del suo amore, per la felicità di due creature, che s’amavano prima che egli venisse quassù. Gli dirò che non gli sta bene lasciare memoria di sè come d’una bufera, passata a schiantare gli alberi più gentili. Gli chiederò se nessuna donna piange nelle sue contrade per lui; talvolta i soldati hanno spirito di cavalieri antichi, si commoverà, vedrà il bene che può fare; pregherò tanto che mi darà ascolto.»

Con questi pensieri, conduceva, usando gran diligenza, il ferito; il quale camminava da sè, pur reggendosi a lui e ad un vecchio servitore, che aveva menato seco dall’Alemagna. Questi tirava per le briglie il cavallo, su cui il padrone tribolando molto, era venuto pei monti, dal campo di Loano, dove aveva toccata la ferita; e il povero animale teneva dietro, a testa bassa, quasi umiliato di non averlo più in sella. Legato ad un arpione dell’uscio da via, rimase a guardarlo mentre saliva la scala, e gli mandò dietro un sommesso nitrito.

Come furono dentro, il servitore vedendo la prima stanza affatto disadorna, arricciò il naso. Un lettuccio da sedervi sopra, perdeva l’imbottitura per gli strappi del marocchino; e gli ridestò l’immagine dei cavalli visti di fresco sui campi, colle entragne uscenti dalle pance squarciate. Nella stanza del terrazzino dov’era il letto di Don Marco, aggrottò le ciglia: e questi che se n’avvide, pensando che il servitore avesse notato nel barone qualche segno di ripugnanza a quella povertà, disse tra sè: «Pazienza! Ma che ci posso fare se io non sono nè un vescovo nè un parroco ricco...?» E quasi si pentiva d’aver fatto quel passo; ma subito si consolò vedendo il barone porsi a giacere come su d’un letto d’amici. Allora si provò a parlargli della ferita, che era tempo di rivederla; profferse ristoro di cibo e di bevanda; ma ebbe un bel dire; l’altro non voleva nulla. A udirlo