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vicini, mi tramutai. E venni nel vostro paese, dove mi acconciai col pievano defunto, e vi ho seppelliti mezzi, e ho fatto gran bene all’anima mia. Nevvero, signor pievano?

«Sta bene, sì, sì...» — disse don Apollinare vergognoso di vedersi usare dal sagrestano tanta dimestichezza. Ma avendo mestieri di tenerselo amico, trangugiò quel boccone.

A un tratto un gran parapiglia, un vociare rabbioso, un suono di colpi menati, in luogo più basso furiosamente, fece sorgere lui, e Mattia, e tutta quella gente che avevano intorno; ma egli con diverso animo, perchè corso alla giumenta fece atto di voler montare in sella, gridando: «I Francesi!»

«Stia, stia, — gli gridò il sagrestano — sono quei di A... che si picchiano fra loro!

«Allora datemi l’orcio dell’acquasanta, vado a chetarli!

«Che! — rispose Mattia — vorrebbe scendere laggiù a buscarne? Faccia da qui che l’acqua santa va da sè: Vede come si fa?»

E preso in mano l’aspersorio, che per volere del pievano aveva recato dietro coll’orciolino e con altre carabattole; lo agitò in aria due o tre volte, poi lo diede a lui che benedicesse quei furibondi. I quali volendo accendere i fuochi, pel freddo che faceva su quelle alture, avevano cominciato a contendere nel far legna e da ultimo a menar le mani, a strapparsi code, a scaraventare cappellacci, sino a che la pace potè tornare, che fu briga assai lunga.

Don Apollinare credette d’aver fatto col suo aspersorio assai; e venuta la notte, s’avvolse per bene nel ferraiuolo, non senza aver molto raccomandato a Mattia di vegliare. Questi gli si sdraiò vicino, facendo conto di dormire con un occhio, e di contare le stelle coll’altro: e noi lasciandogli a serenare, tirati dalla carità ci rifaremo in fretta dal signor Fedele; che non avesse ad affogare sotto quel tino, dovo l’abbiamo visto cacciarsi.