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nacchi, annunziava che lo stormo dei guerrieri della religione e del trono, movevano a farla finita coi Francesi.

Movevano, ma fu gran fatica pei condottieri, montati sull’asine e sulle giumente tutte nappe e sonagliere, meglio che nella festa di Sant’Antonio. La moltitudine strepitava camminando come gualdana infernale; miscuglio di entusiasmo, di vero valore, e di grosse millanterie. Qua cantavano salmi o canzoni popolari: là procedeano silenziosi ascoltando qualche vecchio novellatore; alcuni recitavano il rosario tenendo in mano certe corone dai pippori così grossi, da poterne all’occorrenza far palle da schioppo: e su tutte quelle teste si vedevano l’armi appuntate al cielo. Erano più di due migliaia, e avevano un’aria terribile e selvaggia.

Su su a quel modo per val di Bormida, si misero nelle strette, dove il torrente rovina con voci strane, fra massi ispidi, smisurati, precipitati dall’alto a frenare la collera dell’onda, che in tempo di piena non dirompa le ripe.

Il sole andava sotto, quando i più volonterosi toccarono le vette del monte di San Giacomo, sopra il Finale. Sul mare che si scopriva innanzi, biancheggiavano vele verso Provenza, vele verso Portofino, vele per tutto il golfo; mirabile alla vista pei mutamenti dei colori onde s’andava tingendo. Quelle erano vele inglesi, napoletane e francesi, che si davano la caccia in alto; mentre molti legni sottili di genovesi avidi ed audaci, navigando marina marina, recavano provvigioni verso la Francia affamata.

Lassù i nostri battaglioni, fecero la loro fermata in sul tramonto; quasi stupiti che il sole osasse discendere come tutti gli altri giorni. Dalla vetta del San Giacomo a quella del Settepani, non si vedeva che gente, stendardi e croci; non s’udivano che grida; pareva la tregenda. Don Apollinare seppe del rettore di Montefreddo, e d’altri preti, suoi amici, venuti lassù coi popoli delle due vallate della Bormida, e ne provò consolazione. Ma