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tieri mutata sorte colle donne più tapine che fossero nella valle: e udendo i campagnuoli cantare strambotti pei colli, in quelle notti piene di misteriose melodie; i loro pensieri s’incontravano mestamente con quelli dell’infelice.

«Oh! — diceva la cieca — han bello dire, ma le contadine sono più felici di noi! Vengono su pascendo le pecore e sarchiando il campo, durano stenti grandi, è vero; ma almeno quel po’ di pane che Dio manda lo mangiano in pace, senza tante ambizioni....! Noi.... noi.... invece....»

Margherita assorta nei canti che s’udivano lontani, chiedeva che volessero significare a quell’ore insolite, e pareva passionarsene: la zia sospirando rispondeva: «cantano la primavera tornata; la tua bella età, che Dio protegga, sicchè tu sia più fortunata di tua sorella!

«E Bianca? — ripigliava la giovinetta — che farà di là? le piaceranno questi canti, a lei così afflitta?»

Non era da dubitarne. Bianca porgeva orecchio dalla sua finestra, e pensava ai mài, che i contadini piantavano cantando dinanzi le porte delle foresi cui volevano bene. E anch’essa cadeva in quell’idea, che nata villanella, sarebbe stata più lieta; e che pur di potersi sposare all’uomo amato, la sferza del sole non la si doveva sentire, e lavorare sul solco da un’avemaria all’altra, doveva parere un trastullo. Ma per sè non poteva sperare che lo sterile rifugio d’un monastero; e in quei giorni di silenzio e di solitudine, ne parlava seco stessa, menzionando la pace, il sepolcro, mille malinconie; in guisa che se la zia l’avesse intesa, si sarebbe alfine levata contro il cognato; e delle due l’una, o egli smetteva dal tormentare Bianca, o essa se ne sarebbe andata a vivere da sè.

«Ma! — diceva la povera giovane, in certe ore che l’aspetto della vita le si faceva più lugubre: — quando sarò nel monastero, e mi avranno tagliati i capegli, e la mia faccia si sarà fatta smorta; se egli venisse a vedermi una volta, e mi ravvisasse, e mi dicesse: «tale