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un soldato angioino, e che là sotto giacesse Manfredi. Per me l’antico, quel che non è più è tutto. Quello che vive è nulla. Io stesso mi sento nulla; e se Garibaldi non fosse un’antichità non lo avrei seguito». — Così diceva Telesforo e m’attristava.
In quel momento udimmo un trotto di cavalli che venivano dal Volturno. Ci siamo! Saranno scopritori borbonici, discendiamo nei campi. Passarono veloci tre cavalieri, e allora venne anche a me il soffio dell’antichità. Mi corsero per la mente quelli mandati da Carlo d’Angiò, sulle peste di Manfredi, creduto fuggitivo dalla battaglia: ma i vivi erano delle nostre Guide, gioventù ardita, fin temeraria. Andarono parlando allegramente lombardo. E noi, tornati sulla strada, tirammo avanti ancora un bel tratto fantasticando. — «Manfredi? Carlo d’Angiò? — seguitava Telesforo. — Il Re d’ora sì, è un Re da fuga! Ieri l’altro Francesco era in mezzo al suoi trentamila soldati: poteva mettersi alla testa di un migliaio di cavalli, tentar un punto della nostra linea, rompere, passare, galoppare a Napoli, trionfarvi! O così, o rimaner ammazzato, passato fuor fuori da uno dei più valorosi nostri, per esempio da Nullo. Non seppe fare nè l’una nè l’altra cosa, e così è finito. Quanto a Carlo d’Angiò, ora viene Vittorio Emanuele. Seicento anni tra loro: e invece d’un Papa