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v’era! È un patimento, un dolore squisito, che non somiglia a nessun altro dolore. I nostri sono di là, hanno combattuto, e noi non c’eravamo!

O frate Calasanziano maestro mio; cosa fai, in questo momento, nella tua cella, donde, in quello scoppio del quarantotto che noi sentimmo appena da fanciulli, l’anima tua di trovatore si lanciò fuori ebra di patria? E quasi voleva andarsene dalla terra, quel giorno del quarantanove orrendo, quando dalla cattedra dicesti ai tuoi scolari: Fummo vinti a Novara!

Ci narravano i più grandi, che il padre maestro, dicendo così, era caduto sfinito: e noi mirandolo per i corridoi del collegio, rapido, sempre agitato, fronte alta, capelli bianchi all’aria, e l’occhio in un mondo ch’egli solo vedeva; ci sentivamo mancar le ginocchia e pensavamo a Sordello di cui, leggendoci Dante, ci voleva infondere la gentilezza, la forza e lo sdegno.

Fu lui, gran frate, che del cinquantatre ci lesse, nella scuola, l’ode: Soffermati sull’arida sponda. Non disse il nome dell’autore, ma promise il primo posto a chi lo avesse indovinato. Indovinammo tutti! Non avevamo già letto il Coro del Carmagnola?

Ora di quell’Ode mi torna l’ultima strofe e l’accento con cui il padre leggeva: Dovrà dir sospirando: io non v’era! E a lui, in questo momento,