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tirando questa carrozza da prìncipi. Romeo Turola sonnecchia, io noto.
Ho riveduto Porta Sant’Antonino, il Convento e quella muraglia che all’alba del 27 maggio, quando venimmo, balenava e tuonava come una nuvola tempestosa. I due grandi pioppi, a piè dei quali quel mattino vidi il primo napoletano morto, tremolavano sino all’ultima foglia con un sussurro allegro quasi consapevole. Passandovi sotto, pensai raccapricciando a quel morto, a quella povera montanara della Calabria o dell’Abruzzo che si farà sulla soglia della capanna, con una paura confusa della guerra che c’è pel mondo, dove forse crede ancora di avere il suo figliuolo soldato. E pensai anche ai prìncipi di Casa Borbone, che sino ad ora non se n’è visto uno a cavar la spada.
Mi volgo indietro. Palermo è laggiù, laggiù come la vedevamo da Gibilrossa, dal Parco, dal Passo di Renna, ma ora libera nella sua gloria fra le sue rovine, di giorno e di notte tutta un festino. Partendo, ho inteso che già sono arrivati certi armeggioni a guastare. Ve ne erano forse fino dai primi giorni della capitolazione. Quella sera che ci raccolsero in fretta e in furia e ci tennero sotto l’armi delle ore, in via Maqueda, che cosa era stato? Mi disse Rovighi che si parlava d’una alzata di La Masa, per togliere a Garibaldi la Dittatura