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16 giugno.

Ippolito Nievo va solitario sempre guardando innanzi, lontano, come volesse allargare a occhiate l’orizzonte. Chi lo conosce, viene in mente di cercare collo sguardo dov’ei si fissa, se si cogliesse nell’aria qualche forma, qualche vista di paese della sua fantasia. Di solito s’accompagna a qualcuno delle Guide: Missori, Nullo, Zasio, Tranquillini; ed oggi era con Manci, a cui veggo negli occhi i laghi del Tirolo verde, ov’ei nacque. Quando incontro costoro, vestiti ora d’un uniforme di garbo un po’ ungherese, bello, già illustrato nel quarantanove dalla cavalleria di Masina in Roma, io mi sento nascere di dire: «Uno di voi mi vorrete in groppa quando galopperete per i campi nella battaglia?». Vorrei provare a un di quei cuori il mio. E sceglierei Manci, che mi pare un cavaliero non ancora vissuto in nessun poema. Non è l’Eurialo di Virgilio, non quell’altro dell’Ariosto; è un non so che di moderno, nemmeno: è una gentilezza dell’avvenire.

Con Manci veggo sovente quel Damiani, che, se fossi scultore, getterei in bronzo, lui e il suo cavallo, alti, piombati sopra un viluppo di teste e di braccia, quale mi rimase impresso a Calatafimi