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ancora quella povera morta di ieri l’altro. Non v’era più. Mentre ne parlavo ad Erba, un colombo venne a posarsi pettoruto su d’una gronda lì sopra.
— Gli tiro?
— Tira pure...
Meraviglioso! Il colombo venne giù senza testa, come un cencio. «Bravo!» sentimmo gridare, e vedemmo cinque ufficiali napoletani che venivano verso di noi. «Bravo tiratore!» dicevano stringendo la mano ad Erba e a me, mortificato del tiro felice. Ma Erba: «Oh! non è nulla, noi codesti tiri li facciamo a volo...».
— Anche a volo! — esclamarono gli ufficiali, — ma allora siete davvero bersaglieri piemontesi?
— Che bersaglieri! — rispondemmo noi, e sempre tempestati di domande, ci lasciammo tirare da quei cinque a visitare la piazza del Palazzo Reale.
Vedemmo non so quante migliaia di soldati accampati sulla piazza. Mangiavano lattuga a manate come pecore, e ci guardavano da ammazzarci cogli occhi. Credo che se non fossimo stati così bene accompagnati, il pezzo più grosso che poteva avanzare di noi era l’orecchio. Ci inoltrammo in mezzo ad un nugolo d’ufficiali. Un vecchio colonnello, con certa barba sulle guance che pareva cotone appiccicato, rubizzo, adusto, bell’uomo, ci accolse cortese. Anch’egli voleva a forza, farci confessare per soldati di Vittorio Emanuele.