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andato, mi colse un malinconico desiderio d’essere bell’e morto. Poi mi invase una gioia fanciullesca e soave, a pensare che l’indomani doveva essere il giorno della Pentecoste; e mi tornò a mente, confuso ricordo di cose lette da giovinetto, che i Normanni assalirono Palermo appunto la vigilia di quella festa. Gli immaginai giganti coperti di ferro, scintillanti nella tenebrosa antichità, pronti a marciare come eravamo noi, pochi, fidenti, condotti bene; deliziosa mezz’ora di fantasticherie.
Potevano essere le sette pomeridiane, quando ci riponemmo in via, e a notte chiusa, uno dietro l’altro, ci trovammo a scendere giù per un sentiero, appena tracciato di balza in balza. Poco prima, avevamo gridato: «O a Palermo o all’inferno!» e quella ne pareva senz’altro la via. Il cielo era sereno e quieto; vietato il parlare; si aveva fame e sonno. Qualcuno, scivolando, precipitava sul compagno che aveva di sotto, questi sopra un altro, e via, tanto che, otto o dieci, ci trovammo talvolta in un fondo; e fortuna se non ci offendevamo colle nostre armi. Dopo la mezza notte eravamo nella pianura, lontano poche miglia da Palermo. I cani latravano dai casali sparsi per la campagna, e sulla nostra destra sentivamo il rumore del mare. Alcuni lumi apparivano oltre il fitto d’olivi antichi, che spandevano i rami contorti come provassero tormenti; forse erano lumi di pescatori. A sinistra,