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a proposito dei sonetti di cesare pascarella |
— Via bugiardaccio, non te l’ho squillato:
La mia pilorcia, no, non l’hai, ma.....
— Rendimi la berretta!
— Va ’n costà!
— E’ mi tira i capegli!
— Chi t’ha dato?
— Questo bastardo.
— Che ti caschi il fiato!
Lasciami stare!
— Io vo’ ’l mio ferro! or va'!
— I’ lo dirò al mio padre, mascherone!
— Pon giù quel sasso!
— Io nol vo’ por, beccaccio!
— Birboncello! e' m’ha dato in un tallone.
— Da ben ti sta: tu ti da’ troppo impaccio!
— E tu devi essere qualche moccicone.
— Eh, tu vorrai ch’io ti pesti il mostaccio!
— Andiam qua, nel Campaccio.
— Beccati questa!
— To’ quest’altra tu!
— Orsù, e’ basta: non vi date più!
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Non intendo, con tali documenti arcaici, che il Belli certo non conobbe, diminuire per nulla il merito di lui; intendo soltanto rammentare che il genere suo esisteva anche innanzi a lui, sin dal secolo xv (per non risalire, che pur si potrebbe, più su), già bell’e formato. E le Pasquinate, su cui troppo si è insistito, spiegando imperfettamente quasi con esse sole l’origine dell’arte di lui, han dritto soltanto a essere considerate come un impulso di confluente, non come la forza della corrente principale; mentre questa è invece nella riproduzione dei costumi popolani che si ebbe in ogni tempo e, più o meno, meglio o peggio, in ogni dialetto nostro.
Onde il Pascarella, se è vero che mosse dal Belli, non per ciò «sarebbe stato impossibile» se il Belli non ci fosse stato: e me ne fa riprova l’essersi egli così presto e così bene liberato dall’imitazione di lui, e aver saputo, cosciente o no ch’egli ne fosse e ne sia, mettersi piuttosto sulla strada che additarono i milanesi del secolo scorso (tra i quali persino il Parini), e nel secolo nostro il Grossi e il Porta, là dove riuscirono meglio.