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a proposito dei sonetti di cesare pascarella |
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Lug. Al lavorier non se puoi sempre star.
Mad. Un dì te meterò intun [in un] monestier,
Se Dio m’aia [m’aiuta].
Lug. Sì, se ghe vorò andar.
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Ma ha tutt’altra voglia, la Lugrezia, che d’andare a seppellirsi in un convento, e lì in seno si nasconde una letterina dell’innamorato: se non che, nel trarla su per sbirciarla di traverso, dà nell’occhio alla mamma; e assistiamo da capo a un battibecco, tra Madonna, Lugrezia e Agnese.
Mad. Che lettera xe quela che ti ha’ in sen?
Lug. L’è una forma de cafi. [Un libretto di prognostici]
Mad. Mostra mo.
Lug. Non ve la vo’ mostrar.
Mad. Lugrezia, el so
Che colie [colei] te l’ha dada che qua vien.
Lug. Ma dime, Agnese, se ti me vuol ben,
M’hastu dà niente?
Agn. Mi, madona, no.
Lug. Mo su; so ben un di quel che farò,
Non ha in sta casa un’ora mai de ben.
Agn. E in malora e in mal ponto, che vergogna
Rosegar tutto ’l dì sta povereta.
Vu dovresse, cristiana, aver coscienza.
Mad. Deh, tasi, Agnese: anca ti cerchi rogna.
Agn. E’ digo el ver; sta fia è un’anzoleta;
Non so come la possa aver pazienza.
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Non si tratta, già l’ho accennato, d’un esempio singolare. Altri Belli ci furono, allora e poi, in Venezia e altrove; certo senza la copia e l’agilità continue, e l’arguzia quasi continua, del Belli vero. Tra quanti di costoro io conosco, mi par notevole un umanista,
Alessandro Braccesi, che dalle elegie latine passava, pur nella seconda metà del Quattrocento, a sonetti in volgare, in cui la vita del popolo fiorentino è talvolta raffigurata, con schiettezza rude, efficacemente, come presto si vedrà in un lavoro su lui, della signorina
Bice Agnoletti che ne ha studiato molto bene la vita e le opere. Dal quale studio tolgo due sonetti, che, ridotti a forme romanesche, non