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bartolomeo dotti | 515 |
VI
IL FUMARE E LA MESTIZIA
Muse, poiché non so co’ canti vostri
i terreni placar purpurei numi,
echeggiar piú non fo d’Amicla i chiostri,
né gorgogliar di Pindo i dolci fiumi.
Questa canna è mia penna, e questi fumi
mi servon giá di genïali inchiostri,
onde scrivo de l’aria in sui volumi
a cifre vagabonde i dolor nostri.
Sorgono l’atre note, in cui diffondo
i cordogli onde muto io mi querelo,
e i nembi del mio cuor fra i nembi ascondo.
Quindi ritrar qualche conforto anelo,
ché se i sospiri miei non cura il mondo,
gli accoglie almeno in questo fumo il cielo.
VII
L’ABORTO NELL’AMPOLLA
A Giacopo Grandis, fisico e anatomico
Questo, Giacopo mio, sconcio funesto
cui diè morto natale il sen materno,
se maturo nascea, moria ben presto,
e voi d’intempestivo il fèste eterno.
Non so se dolce latte o pianto mesto
gli sia di quel cristal l’umore interno;
so ben che l’alvo suo fu come questo,
poi ch’utero da vetro io non discerno.
Vive quasi per voi chi per sé langue;
embrïone morì, scheletro nacque,
fatto parto immortal d’aborto essangue.
Uomo, impara! Insegnarti al Grandi piacque
che sia ventre di donna e maschio sangue
piú fral del vetro e men vital de l’acque.