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496 | lirici marinisti |
IV
LE DONNE ASCOLTATRICI DELLA SUA POESIA
Coronatemi, o lauri. Il tracio legno
a te, cetera mia, ceda i suoi vanti,
ché se quegli placò lo stigio regno,
tu cieli di beltá tragger ti vanti.
De’ Campidogli tuoi l’alto disegno
io non invidio, o Tebro, a’ tuoi regnanti;
ché teatro piú nobile e piú degno
m’alzâr di belle ciglia archi stellanti.
Mecenati, or non piú chieggio a’ destini
che d’alme bocche al plettro mio sonoro
s’apran arche di perle e di rubini.
Taccia chi inutil chiama il dio canoro,
ché di candidi petti e biondi crini
tratti ho monti d’argento e fiumi d’oro.
V
L’OROLOGIO FERMO
Frena, o bella, il dolor, se ’l veglio alato
sta nel tuo grembo in vasel d’oro immoto;
ch’invaghito di te, priega devoto
la deïtá del tuo sembiante amato.
O s’arrestò perché ’l tuo bel furato
non gli sia dell’etá dal dente ignoto,
o per aver da’ tuoi begli occhi il moto,
s’è da sue rote a piú bei giri alzato.
Forse del ciglio allo ’nfiammato lume,
forse del seno all’animato gelo,
il suo piè s’agghiacciò, s’arser le piume;
o del tuo petto in sul celeste velo
d’agitarsi nel corso invan presume,
perché correr non puote il tempo in cielo.