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486 | lirici marinisti |
II
GLI ALBERI E LA SUA DONNA
Degli orti, ch’erudí destra ingegnosa,
qualor ten vieni a passeggiar la via,
umilïata ogni albore frondosa
offrir suoi parti a la tua man desia.
S’apre il re de le frutta, e la natia
ricchezza de’ rubin ti scopre ascosa;
a te la vite i suoi piropi invia,
lussureggiante in su la rupe ombrosa.
Parla a te sospirando il pero, il moro,
mentre par che sue frondi in lingue cange:
— Io pero, o Nice; innamorato io moro. —
Il pesco, acceso, il proprio sen si frange;
per te serba l’arancio i pomi d’oro,
per dolcezza d’amore il fico piange.
III
IL VESUVIO E LA SUA DONNA
Vedi, Nice, quel monte? Egli è Vesevo,
ch’ha su le viti i grappoli pendenti,
i cui vermigli, indomiti torrenti,
per estinguer talor la sete io bevo.
E dal breve dormir poi che mi levo
per girne errando a pascolar gli armenti,
contra i raggi che il Sol vibra cocenti
sotto i pampani suoi schermo ricevo.
Lá Vulcano non è Sterope o Bronte,
ch’assidui colpi in su l’incude incalza,
benché sparsa di fiamme abbia la fronte.
Ma da quella fumosa arida balza,
con petto acceso, innamorato, il monte
per mirar tua bellezza il capo innalza.