O dolce tempo andato, ove fuggisti,
teco fuggendo ogni modestia umile
e ’l portamento nobile e gentile,
che con lussi superbi il mondo attristi?
Semplici addobbi la natia bellezza
rendean pomposa sí, ma non altera,
ed imitando la maniera ibera
non mai s’impoverí l’altrui ricchezza.
Or le gemme eritree, gli ori del Tago
tessuti a siri stami in tele e in nastri
per legar l’alme ed apportar disastri,
delle donne il desio non rendon pago.
Di gonfia vanitá portano un mondo,
ch’a soffrirlo non rendonsi mai stanche,
ed emulando le fattezze franche
gradito è a lor di sconce vesti il pondo.
Ergon sul capo altier, come Cibelle,
merlata torre di galani e veli;
v’imprigionano il crin ch’avvien si celi
in pena che d’amor fe’ l’alme ancelle.
Candida benda dispiegar si vede
qual bandiera di pace in su la torre,
sotto il dominio lor il mondo a porre,
cui muovon guerra poi, mancan di fede.
Sprigionato indi il crin, rivolto in fiocchi,
ne formano piramide d’Egitto,
per dare alla beltá termin prescritto,
parlare a mille e stupor mille agli occhi.
Col rinvenir sí disusate forme
credon piú bella far beltá natia;
ma ingannate ne van da lor pazzia,
ché la beltá natia fassi difforme.
Di Firenze non mai bestia da soma
portò di rozzi fregi il capo greve,
com’altre ch’hanno poco senno e lieve
portan monti di fior sopra la chioma.