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giovanni canale | 475 |
XII
LO SCHELETRO
Tu che dal riguardarmi orror apprendi,
timido parti e la mia vista abborri,
arresta il piede e la mia voce intendi:
se movi il piede, in grave error giá incorri.
Come a fragil beltá perduto attendi,
che sará qual son io, pensa e discorri;
un punto mi mutò, da un punto pendi,
e col tempo che vola a morte corri.
Begli occhi, vago crin, guance rosate
amabil mi rendeano, e in un momento
divenni schifa polve, ossa spolpate.
A macchinar disegni io vissi intento;
ma i disegni, i pensieri e la beltate
al mio estremo spirar sparirò in vento.
XIII
IL VECCHIO
L’uom ch’al volto ha le rughe, al crin la neve,
incurvato dagli anni è reso un gioco;
trema nel piè, che ’l passo ha lento e breve,
da un legno aitato, e non mai giunge al loco.
L’offende lo spirar d’un’aura lieve
e nel piú estivo ardore a grado ha il foco;
il tacer, il parlar gli è noia greve,
poco intende e ’l suo dir è inteso poco.
Nel suo freddo vigor l’ira l’accende,
ogni lungo piacer l’infastidisce,
nulla gli piace e ad ogni cosa attende.
Quando piú sano appare, allor languisce;
mentre schivo a se stesso e altrui si rende,
fra miserie la vita egli finisce.