Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
456 | lirici marinisti |
XIV
IL TESCHIO DEL TURCO
Questo che morto ancora il ciel disfida,
orrido teschio di terribil trace,
mira, Lidia, mio Sol, l’empio omicida
sprezzator d’ogni legge e pertinace.
Questo de’ traci e capitano e guida
drizzò pronto di man, d’ingegno audace,
ferrata scala, e perché ed arda e uccida
portò ai muri sovente e ferro e face.
Poggiava alfine, ed io sul collo invitto
tal percossa avventai, che ’l busto forte
senza capo restò fra’ morti ascritto.
Or mira, e fa’ che sdegno il guardo apporte,
perché può tua pietá d’un uom trafitto
far vita per miracolo la morte.
XV
EPITAFFIO A SE STESSO
Sparsi sangue ed inchiostro, e in ciel straniero
diedi d’alte speranze ésca al desio;
ma invan, ché fei sotto Saturno austero,
martire del destin, ritorno a Dio.
Or di quel ch’io girai doppio emisfero,
e del mare e del suol vario e natio,
tanto mar, tanto suol converso in zero,
questo zero mi chiude, e questo è il mio.
Cosí, se nel tenor d’aspra sventura
non posai vivo, a la fatal partita
presto a l’ossa riposo in sepoltura.
Riposo, e non mi svegli alma imperita;
ch’io temo, oimè, l’immortal mia sciagura
non torni a l’ire, e mi richiami in vita.