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430 | lirici marinisti |
XLII
I DOLORI ARTRITICI
Per far idolo un ventre io mai non tento
turbar l’alghe rimote ai mari eusini,
né dai torchi di Lesbo imploro i vini,
ma del poco nostrale io son contento.
E pur soggiaccio ai mali, e pure io sento
armarsi contro a me Busiri e Scini,
tutte le tirannie degli Ezzelini
e quanto s’è patito in Agrigento.
Meraviglie dirò. Mai non amata
fu la bella da me Rachele o Lia,
e pur senza fallir la pena ho data.
Siano tutti epuloni, e ciascun dia
larghe indulgenze al genio suo, se nata
dall’astinenza è la podagra mia!
XLIII
IL RITORNO DEI DOLORI A PRIMAVERA
Or ch’han le cose esordio, ascolto i venti
alitar per lo cielo anima molle;
e, sciolti in rio canoro i ghiacci algenti,
ride popolo d’erbe in su le zolle.
Da’ rostri suoi l’eroe pennuto estolle,
a cibarne l’orecchio, inni languenti,
e dove tiepidezza aspetta il colle,
Venere a provocar vanno gli armenti.
Sul mattutino albor fugge dal tetto
e con rombi festanti è l’ape or desto
a depredare il sempre verde Imetto.
Non temono i Leandri il mar di Sesto,
ché lor promette amenitá d’aspetto...
Il mondo tutto è lieto, ed io son mesto.