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giuseppe battista 421

XXIV

IL TEMPO

     Nacqui e vivo nel cielo, e pure il cielo
le mie forze tiranne unqua non sente;
misuro i moti al sole e col mio dente
rodo i marmi a Numidia, i bronzi a Delo.
     Do le fiamme alla state, al verno il gelo,
rendo la notte ombrosa, il dí lucente,
e so portar della mondana gente
rughe alla fronte e canutezza al pelo.
     Angue son io da mano egizia espresso,
che mordo la mia coda. Or qual veleno
vomito a’ danni altrui s’odio me stesso?
     In tante scene io mi paleso; appieno
di saper l’esser mio non è concesso;
quanto si pensa piú, s’intende meno.

XXV

     Democrito, tu ridi e col tuo riso
tutte le umane cose a scherno prendi
e, sia del fato o mesto o lieto il viso,
con lieto viso ogni accidente attendi.
     E tu col mento in sulla destra assiso
piangi, Eraclito, e sempre al pianto intendi;
forse che quanto è fra di noi diviso,
lacrimosa tragedia esser comprendi.
     Ma siate pure al pianto o al riso intenti,
ché ’l riso e ’l pianto a me rassembra intanto
vano delirio delle vostre menti.
     I mali di quaggiú gravi son tanto
che, per guarir le travagliate genti,
è vano il riso ed è piú vano il pianto.