Deh, tu, possente domator de’ mali,
ozio dell’alme e regnator di Lete,
dal ciel movendo rugiadose l’ali
all’agitato cor reca quïete.
Giá non chiegg’io che dalle fosche piume
sparga tutto il sopor nel petto mio;
pago sarò se l’uno e l’altro lume
toccherá, tua mercé, stilla d’oblio.
Dalle tempeste de’ pensier mordaci
l’animo lasso è per restare assorto;
ma, se tu vieni a me, fra dolci paci
ritroverá nelle tue braccia il porto.
Benché di neri stami a’ giorni miei
componessero il fil perfidi fati,
per te, placido dio fra gli altri dèi,
non dissimil sarò da’ piú beati.
Tu, delle menti languide ristoro,
della figlia di Temi inclito figlio,
se ingiusto è il male onde penando io moro,
porgi i tuoi lacci a l’uno e l’altro ciglio.
Se nell’attica terra altar famoso
con l’ardalide muse unito avesti,
la tua destra gentil grato riposo
ad un seguace delle muse appresti;
ch’io di vin coronando ampi cristalli
al nume tuo gli offerirò divoto;
poi di vegghianti e strepitosi galli
un’ecatombe svenerotti in voto.
Farò ch’a gloria tua piova su l’are
di papaveri molli un largo nembo,
ed avverrá che da’ miei preghi impare
la bella Pasitea d’accòrti in grembo.
Su vieni, o sonno, e ’l tuo favor m’apporte
contro al tiranno amor pietosa aita.
Vientene, o sonno, e per beata sorte
dal fratel della morte abbia io la vita.