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354 | lirici marinisti |
VI
NARCISO
Per saettarmi il petto il cieco dio
di straniera beltá l’arco non tende;
me con me stesso impiago, e ’l desir mio
me di me stesso innamorato or rende.
Ardo, misero, amando e ’l foco rio
in un gelido umor da me s’accende;
adoro un volto ch’è mio volto, ed io,
io che l’offeso son, son chi m’offende.
Per annodarmi il core io stringo il laccio,
i pregi miei com’altrui pregi io lodo,
di speme un’ombra, e la mia ombra, abbraccio.
Oh d’ingiusto penar diverso modo!
Mentre sospiro il ben per cui mi sfaccio,
meco unito è il mio bene e pur nol godo.
VII
LA FARFALLA AL LUME
Dell’aure agli urti inestinguibil face
in cavo vetro imprigionata splende,
la cui luce a goder veloce stende
semplicetta farfalla il volo audace.
Ma di quel lume i rai per cui si sface,
quel fragil muro ai suoi desir contende;
pur vaga dell’ardor che ’l cor l’accende,
vola, riede, s’aggira e non ha pace.
Mira vicine a sé le fiamme amate,
né raggiungerle puote, e in van tuttora
cerca al proprio morire aprir l’entrate.
Che deluso ciascun vi segua ognora
gioie, scettri, tesori, ah, non vantate,
or ch’ha i Tantali suoi la morte ancora!