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vincenzo zito | 341 |
II
IL CENNO DEL CIGLIO
La sentenza crudel di non amarmi
sdegna di profferir con le parole
colei ch’avanza di chiarezza il sole,
ma ’l ciglio innalza e ’l «no» prende a spiegarmi.
Dunque, pronto si scorge a guerra farmi
arco di pace? ed iride che suole
annunzïar sereno, ahi, dunque vuole
le tempeste predir per atterrarmi?
Se gli occhi amati hanno vitale il lume,
ch’ancor gli estinti sa tornare in vita,
come il ciglio dar morte ha per costume?
Siasi arco o ponte: ella, o se stessa invita
a passar di mio pianto il largo fiume,
o di me vinto il suo trïonfo addita.
III
IN TEMPO DI VENDEMMIA
Or che ’l natal si celebra del vino,
pigiando l’uva il villanel campano,
libero il dir concede il dio tebano,
stando Priapo alla fescina vicino.
Deh, perché a Cilla, cui divoto inchino,
non scopro il sen trafitto, il cor non sano?
Fra gli scherzi mischiar non sará vano
quel ch’a tacer mi strinse il fier destino.
S’ella un sí grande ardir prendesse a duro,
mostrerò finto il mio penar verace
e ’l chiaro coprirò col senso oscuro.
L’uso, o mia lingua, rendati loquace;
e, s’è timido Amor, ben t’assicuro
ch’unito con Lieo farassi audace.