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bernardo morando | 287 |
VI
L’AMANTE E GLI OCCHIALI
Per vagheggiarti, Ermilla, a mio diletto,
di sferici cristalli i lumi armai;
ché se per te mancò giá spirto al petto,
or luce agli occhi, ecco, mi manca omai.
Fui lince pria, ma poi che gli occhi alzai
de’ tuoi begli occhi al troppo chiaro oggetto,
quasi gufo dal Sol vinto restai:
nacque da la tua copia il mio difetto.
Indi per tua fierezza io piansi tanto,
che questi umori incristalliti in giro
da le vene del cor trassi col pianto.
Ma che pro, s’a me l’alma onde t’adoro
manca, non che la luce onde ti miro?
Se miro, abbaglio, e se non miro, i’ moro.
VII
IL DENTE MANCANTE
Contra il tiranno Amor, cui sempre cura
fu d’opprimere i cor con pene e pianti,
ordiro giá ben mille offesi amanti,
agognando vendette, aspra congiura.
Fèssi il foco in Amor giel di paura:
fuggí; volse a te, bella, i piè tremanti,
ché del tuo cor nei rigidi adamanti
s’avvisò di trovar magion sicura.
Ma, rispinto dal cor, dentro la bocca
fra quei muri d’avorio ei tutte accolse
le forze sue, quasi in munita ròcca.
Lá da l’ordine eburno un dente tolse,
onde stassi in agguato e i dardi scocca,
onde, presa la mira, al cor mi colse.