Madre non giá, ma fèra o furia ardente
parve a l’atto crudel, quando, spietata,
quella chioma troncò, parca nocente.
In mirar che la madre anco sdegnata
era contro di lei, tacque la bella,
muta e mite rimase ov’era irata.
De la sala sul suol le bionde anella
crebber luce a le gemme; e al crin reciso
non piú donna real, ma sembra ancella.
De l’ingiusta sentenza al crudo aviso
si parte e va a la morte e gli occhi abbassa,
ed intrepido mostra il cor nel viso.
Move a pianto, a pietá dovunque passa;
solo il rigido re nulla commove,
e piú l’anima indura e il core insassa.
Ogni téma dal cor franco rimove,
generosa la morte incontra e abbraccia,
e d’insolito ardir mostra gran prove.
Non smarrisce le rose asperse in faccia;
per dimostrar che pazïente more,
piega in forma di croce ambe le braccia.
O stupor! lei che dianzi entro il furore
parve stolida tigre, agna or si vede,
tutta mite nel volto, umil nel core.
Al luogo destinato arresta il piede,
piega l’alma cervice e ’l ferro aspetta,
ed al fato ed al ferro inchina e cede.
A darle morte i rei ministri affretta;
ma mori pure, intrepida reina,
che ’l ciel fará del tuo morir vendetta!
Il carnefice a lei giá s’avvicina,
sguaina il brando e lo solleva in alto,
e sul candido collo il colpo inchina.
Tingendo il suol di porporino smalto,
che dal vivo alabastro esce in canali,
spicca il teschio reciso in aria un salto.