Comanda pur, ch’obedirotti appresso;
in servo umil mi cangerò da sposo,
farò del tuo voler legge a me stesso.
È tempo ormai ch’io prenda almen riposo
ne le tue braccia, ove tu puoi bearmi,
queste piume premendo ebro e gioioso.
Ma s’a guerra d’amor godi sfidarmi,
placa le luci tue spietate e crude,
e poi, bella nemica, accingi l’armi.
Prima ch’a la battaglia io serva e sude,
sia questo letto l’odorato campo,
l’armi di tua beltá mostrami ignude.
Fonte de’ miei piacer, spegni il mio lampo,
sazia la sete mia, poich’in amore
tutto anelo, sfavillo, ardo ed avampo.
Incatenami il collo, e a tanto ardore
giungi meco anelando, avvinto e stretto,
seno a sen, labbro a labbro e core a core. —
Ma, per frenar l’irregolato affetto
del lascivo suo re, l’ebrea reina
mostrò nel volto aver sdegno e dispetto.
— Troppo la tua ragion s’abbassa e inchina
a dar licenzïoso ai sensi il freno,
troppo dal dritto amor torce e declina.
Spegni — dice — il bollor ch’accogli in seno;
come i popoli tuoi reggendo vai,
sí le sfrenate voglie accogli a freno.
Moderi altrui né te corregger sai;
le cittá signoreggi, ed or sí folle
da’ sensi tuoi signoreggiar ti fai?
Gran vergogna è d’un re se in ozio molle,
a lascivie ed a lussi in preda dato,
non dá freno al furor ch’al cor li bolle.
Tu, che eserciti indomiti hai domato,
d’un lascivo desio resti abbattuto,
d’un fugace pensier resti espugnato? —