Qui porporeggia il melo,
lá giallo impallidisce il cedro antico,
e con lacero sen lagrima il fico;
di rubini la vite orna il suo stelo,
e di porpora e d’òr pendendo altero
miniata ha la scorza il pomo e ’l pero.
Alzo gli occhi bramoso,
spio tra’ rami le frutta e ’l braccio stendo,
e qual piú mi diletta avido io prendo:
poi vicino ad un lauro il dí riposo,
e per frutti gustar soavi tanto,
ho melata la lingua e dolce il canto.
Scorre l’ape soave,
e tanto i suoi susurri in aria ponno,
che mi stillano agli occhi un dolce sonno:
scende l’ombra da’ monti umida e gravi:
ecco stridulo il grillo, e in voci rotte
par ch’annunzi la pace e dica: — È notte. —
Odo a punto a quest’ora
semplicetto cantor d’incólte rime
il villanel, che le sue fiamme esprime;
tratta cava testugine canora,
e con rozzo cantar dolce e concorde,
porge grazia a le voci, alma a le corde.
A quel rustico accento
immerso in un sopor cupo e tenace,
prendo posa tranquilla e dolce pace;
poi de’ garruli augelli al bel concento,
salutando de l’alba il novo lampo,
gli occhi desto dal sonno e torno al campo.
Sotto i piedi l’erbetta
lagrimosa mi ride, e sono i pianti,
ch’ella sparge tra’ fior, perle e diamanti.
Febo, amico di pace, allor mi détta
mille belli pensier; Febo m’è scorta,
e m’inalza la mente e al ciel mi porta.