Ma giace vinto al fin; ned altri aduna
l’ossa famose e ’l glorïoso busto,
com’io d’amor trastullo, ei di fortuna;
proviam ambi il destino e ’l cielo ingiusto,
fatto giá spettator de’ nostri scherni
orgoglioso il Metauro, il Tebro augusto.
Lassa, ma pria che in me rigido verni
di morte il gelo, io spegnerò l’indegno
foco e del foco i sensi e i moti interni.
Sí, sí, perdasi amor, se persi il regno;
m’abbian morte ed amor tra le lor prede;
siasi, tradito amor, giusto lo sdegno.
Ben cieco è chi tue frodi oggi non vede:
ecco priva d’amor, d’amante, io giaccio;
ecco rompo l’amor, qual tu la fede.
Giá fui tutta di foco, or son di ghiaccio,
serva no, ma nemica; a’ tuoi trïonfi
mi vedrai morta, pria che serva al laccio.
Invano, invan di mia beltá trïonfi,
di Numidia e d’amor barbaro infido;
invano, invan del tuo valor ti gonfi.
Cerca omai che del Tebro al patrio lido,
de le tue glorie illustri e pellegrine,
pria che tu quivi aggiunga, aggiunga il grido;
ché giá le vaghe vergini latine
mostran, perché ’l lor bello ami ed ammiri,
latteo sen, rosea guancia, aurato crine;
giá giá nel grembo tuo le abbracci e miri:
vie piú dolci de’ miei so che saranno
misti i lor baci a languidi sospiri.
Ma so pur ch’amarissime godranno
le dolcezze d’amor: fian mie rivali
sí nel provar l’amor come l’inganno;
non mancheran giá loro urne regali,
dove ondeggi il velen ch’immerga e chiuda
in caligine eterna i dí vitali.