Erro, e in amore il mio contrasto è breve;
ma pur pietá non che perdono io merto,
ché se ’l fallo è d’amore, il fallo è lieve.
Cosí, vinto il mio regno e ’l core aperto,
trïonfando ne vai di me, de’ miei,
o di Marte, o d’Amor guerriero esperto;
e fra soavi lagrime ed omei
passi (oh vergogne mie!) dal campo al letto,
via piú fabro d’amor che di trofei.
Quivi il bel fianco ignudo, ignudo il petto
t’offro; ne’ lacci tuoi forti e tenaci
godon l’anima avvinta, il sen ristretto;
e quivi or fra le risse or fra le paci,
giungi a molli sospir dolce lusinga,
a le lusinghe i vezzi, ai vezzi i baci.
Sai ben, la ’ve a la pugna Amor s’accinga,
come labro con labro in un s’accoppi,
come core con core in un si stringa;
anzi, mentre al desio l’ardor raddoppi,
doppian per te, solo a’ diletti inteso,
le catene le braccia e l’alma i groppi.
S’è di mia pudicizia il pregio offeso,
in me provo il rossor, dal labro impuro
di lascivia assai piú che d’ostro acceso.
E poi (ben di mia stella orrido e scuro
tenor!) fra tenerissime dolcezze
mostri il cor di diamante assai piú duro.
Empio e crudo che sei, di mie bellezze
sazio, or torci da me le luci amate,
che fûro in prima a vagheggiarmi avvezze.
E le leggi d’amor rotte e sprezzate,
se de l’armi il furor l’alma non pave,
mi dái colme di fel coppe gemmate;
mentr’è ancor la tua bocca umida e grave
de’ miei baci, il veleno a me presenti
in difetto del nettare soave.