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II

IL DONO DEL FIORE

     Splendea d’alta finestra il viso adorno,
in cui natura ogni sua grazia pose;
qual, coronata di celesti rose,
appar l’aurora dal balcon del giorno.
      Io, che sempr’erro al car’albergo intorno,
qual fanno intorno ad urna ombre dogliose,
fermo era, quando, avvista, ella s’ascose,
tutta vermiglia d’amoroso scorno.
     E gettommi in ritrarsi un fior dal seno,
in atto che fu studio e parve errore;
di che augurio prend’io felice appieno
     che, forse, appresso al picciolo favore
verrá l’intera grazia un dí, non meno
che venir soglia il frutto appresso al fiore.

III

DURANTE UN GIUOCO DI VEGLIA

     — Ardisci! — disse a me l’idolo mio,
quand’agio gliene porse il gioco impreso;
poi, di terger fingendo il lume acceso,
nella forbice argentea il sepellio.
     Ratto un tacito bacio allor cols’io,
consigliato dall’ombra e audace reso;
sí che prima ubbidito ebbi ch’inteso
quel che dir volse il mio dolce desio;
     ché, rallumato il giá morto splendore,
la rividi piú lieta e dissi meco:
— Quest’era certo il senso del suo core. —
     O benedette tenebre, voi speco
siete a’ furti dolcissimi d’Amore;
nè per altra cagione ei finto è cieco.