Al figliuolo d’Atreo. Mirò vicina
Pien di stupor l’amabile Terapne
Del monte star sotto l’ombrosa selva.
Nè v’era quindi a navigar gran tratto,
Nè molto ancor per lo seren s’udía
Lo strepito de’ remi: e già nel seno
De la terra i nocchier gittando funi,
Legar la nave al desiato lido.
Paride allor lavandosi con pura
Acqua, fea come timorosi i passi,
Perchè non fosser i vezzosi piedi
Di polvere imbrattati, e perchè soffio
D’aura, mentr ei più frettoloso gisse,
Non scomponesse a lui la sparsa chioma,
Che dal cappel fuor esce: e riguardando
De’ Cittadin, cui gli Ospiti son cari,
L’eccelfe Case, ed i vicini Templi,
A lo splendor de la Città fea mente:
Ivi ammirava il simulacro d’oro
Di Pallade la Dea, che Sparta adora:
E gli occhi altrove rivolgendo, vide
Anche la statua di Carneo Giacinto,
Di cui sapendo il popolo Amicleo,
Che giovinetto era l’amor d’Apollo,
Temeva, che sdegnatasi di Giove
La Dea Latona, anche costui rapisse.
Ma non conobbe Apollo esser lo stesso
Caro a Zefiro ancor mentre ’l guardava.
E la Terra per far piacere al Rege
Apollo, che piangeva, un fior produsse,
Fior d’Apollin conforto, e de lo stesso