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xxii - ser cecco nuccoli 3

IV

Per il medesimo Trebaldino; acrostico.

tre anni e piú fa mò, ch’Amor mi prese,
ma ’n ben so’certo che mai non mi lassa;
balenò uno splendor, ch’ogn’altro passa:
4fredd’era il tempo, e di calor m’accese.
di morte in vita mia alma sospese;
ditelme donque, Amor, se mai s’abbassa:
non vede tu ch’io sto co’ pesce i’ nassa,
8ni po’ fuggir da lui né far defese?
servir ce puoi, Amore, e toglier doglie;
ramo fiorito, che stai in sul monte,
11celatamente fa’ che tu ne coglie.
Ben puoi saper qual nome io porto in fronte:
colui, che giá dinanze fe’menzione;
14Luccia al figliuol ferito pon cagione.

V

È indignato contro la madre di Trebaldino, perché ostacola il suo desiderio.

Rabbia mi morde el cor con maggiur izza,
che quella, che conquise Bonifazio:
benigno aspetto d’un desso, ch’io sazio
4si del bel cor, che ’nmaginando frizza,
Luccia l’adombra, ché per me se drizza
sovr’al suo figlio a far diverso strazio,
dicendo sempre: — Io non ti darò spazio,
8ladro, che tu mai parie a quel, ch’attizza. —
Cosi è questa crudel de pietá nuda,
piú, che non fu a! suo tempo Medea:
11ch’el mio sparvier ha ucciso ne la muda.
Ma ella coi van pensier se fa un’idea;
ma la natura ’l dá, ch’el gioven faccia,
14en ne la sua etá, cosa, che i piaccia.
S’el mio ci è morto, non è cosa nova,
ché quel de Giovannel ne fe’ giá prova.