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vii - cecco angiolieri 113

C

Attende vanamente, per uscir di povertá, ia morte del padre.

Qual è senza danar innamorato
faccia le forch’e ’mpiccliis’elli stesso,
ch’e’ non muor una volta, ma piú spesso,
4che non fa que’, che del ciel fu cacciato.
E io, tapin! che, per lo mi’ peccato,
s’egli è al mondo Amor, cert’i’son esso,
non ho di che pagar potesse un messo,
8se d’alcun uom mi fossi richiamato.
Dunque, perché riman ch’i’ non m’impicco?
Che tragg’un mi’pensèr, ch’è molto vano:
11c’ho un mi’padre vecchissimo e ricco,
ch’aspetto ched e’muoi’a titano a mano;
ed e’ morrá quando ’l mar sará sicco,
14si l’ha Dio fatto, per mio strazio, sano!

CI

Ma colui non vuol andarsene.

Sed i’ credesse vivar un di solo
piú di colui, che mi fa vivar tristo,
assa’di volte ringrazere’Cristo;
4ma i’credo che fie pur coni’i’volo.
Ché potrebb’anzi di Genova ’l molo
cader, ch’un becco vi desse di bisto:
cliéd e’l’ha si borrato’l mal acquisto,
8che giá non li entrerá freddo per polo.
Questi, di cu’ dico, s’è ’l padre meo,
c’ha di noiarmi maggior allegrezza,
11che non ha l’occhio, che ’n ciel vede Deo.
Vedete ben s’i’debbi’aver empiezza:
vedendolo 1 ’altrier, mastro Taddeo
14disse: — E’ non morrá che di vecchiezza. —

s