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Ed in un’isoletta, qual si chiama
Ustica, che a Trapani è al dirimpetto,
quivi fermossi con dolore e brama
che morte venga per piú suo diletto:
non vuole onor o gloria o pompa o fama,
cerca sol noia, tristizia e difetto;
e seppellir fe’ il corpo a grande onore
con lungo pianto e lagrime e dolore.
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Dipoi, un di, soletto, el bel Cerbino,
per una valle con dolore andando,
dolendosi del suo crudo destino
e di fortuna, che ’1 vien seguitando
e sempre il fa piú dolente e meschino,
e’ con amor parlava lamentando;
— Resister non può gnuno alle tue posse;
ma fie pietosa in me, dolce Atroposse. —
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Mentre che andava cosi lacrimando,
arrivò per ventura ad una fonte;
quivi a seder si pose, rinnovando
d’amor le ’ngiurie e’ lacci e ’nsidie ed onte;
e con quell’acqua chiara rinfrescando,
ch’era affannato, si lavò la fronte,
po’ ’l bel paese d’intorno guardava,
di Fortuna e d’Amor si lamentava.
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Prima guardava intorno la fontana,
qual tutta di begli alberi è intorniata,
dicendo: — O lassa vita mia villana,
perché se’ tu di tal caso occupata?
Oh donna degna, oh alma umile umana,
oh gente maladetta e disperata,
che non guardasti a tanta gentilezza,
né alla sola ed ultima bellezza! —