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atto secondo | 53 |
che questa pazzia gli dura ne la testa, non mi può mal tempo. Ei piagnerá, sospirare e lamentarassi; e io diluviarò, tracannare- e gli roderò l’ossa. Oh! Quanto io mi rido di questi locchi innamorati che si lassan perdere tanto in questa lor pazzia che non mangiano e non beon mai! Oh poverelli! di quanto ben son privi!
Panzana. Almanco cotesto messer Giannino è giovene e potrebbe mutarsi. Lassa dir a me che io mi trovo un padrone che ha presso a cinquantanni ed è piú innamorato che mai. Non vedesti mai la maggior bestia. Mai fa altro, la pecora, che dipingersi la barba; sempre sta in su l’amorosa vita; tutto ’l giorno cantépola e componicchia qualche ballata o sonettaccio o simil’altre papolate. Qualche volta mi chiama e mi mostra alcuna letteruzza d’amore: le piú fastidiose cose del mondo che non son piene d’altro che di «sbigottosi prati», «acque soventevoli», «sollazzose fiate», «aggradato dal pensiero che trapana i rosseggiane cuori della sua anima» e simil’altre poltronarie da far recere i cani.
Sguazza. Oh Nostra Donna! Quanto mi fanno doler la testa queste tali filastrocche! Mi son abbattuto ancor io, qualche volta, a sentir parlare alcuni di cotesti tali che mai fanno altro che dire «questo nome non è taliano», «questo è francioso», «questo è un barbaro», quest’è il cancaro che li mangi! Che non parlano come s’ha a parlare? Che diavolo mi fa, a me, questo? Poniam caso: s’io so certo che questi son capponi, che m’importa saper come si chiamano? A me basta ch’io me li mangiarò. E cosí vo’ dir delle altre cose.
Panzana. Pensa, adunque, quanto fastidio sia il mio che sento queste cose di continuo!
Sguazza. Tu ti riscuoti poi coi buon bocconi, tu.
Panzana. Cancaro! Se non fusse cotesto, non vi sarei stato un’ora.
Sguazza. In fine, Panzana, grandissima consolazione è il mangiar bene. Io non credo che nel mondo ci sia la maggior contentezza. Che dame? che denari? che bellezza? che onori?
che virtú? Io vorrei ch’egli andassero in chiasso quante donne