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atto secondo | 43 |
Ferrante. A torto lo faresti, Corsetto, se ti dolesse della mia amicizia perché io non ho altro uomo al mondo in ch’io mi confidasse e a ch’io piú desideri far piacere. E che sia el vero, se io mi fusse guardato in questa cosa mia da te, non t’arei menato qua in Pisa dove sai quante volte t’ho detto che, quando sará il tempo, ti dirò il tutto. Ora il tempo è venuto e Dio mi sia testimonio come non per altro ero uscito adesso fuori se non per trovarti e conferirti la cosa e consigliarmi teco del tutto.
Corsetto. Io rimango sodisfattissimo: che, a dirti il vero, ho inteso qui d’appresso el tutto della bona mente tua inverso di me. E certo non potevo credere che tu non avesse da far cosi: si che di’ via come sta il fatto.
Ferrante. Discostiamoci un poco piú da casa.
Corsetto. Ecco. Or di’.
Ferrante. Innanzi ch’io ti ragguagli in che termine al presente io mi trovi, bisogna che da capo brevemente ti racconti l’istoria delle mie fortune, perché mal potresti conoscere il fine se tu non sapesse prima el principio.
Corsetto. È certo. Però comincia, ch’io t’ascolto attentissimamente.
Ferrante. E’ son giá passati sette anni, Corsetto, che, trovandomi io nella patria mia di Castiglia, assai nobile e ricco, e di etá forse di diciotto anni, còme volse la sorte, me innamorai d’una giovene d’etá intorno a tredeci anni, chiamata Ginevra, la quale da un Pedrantonio Molendini suo padre, essendo egli fatto ribello, fu lassata in custodia di messer Consalvo suo zio; né del padre si eron sapute piú nòve.
Corsetto. Deve forse morirsi in esilio.
Ferrante. Questo non so. Ora, per mia buona fortuna, trovai in breve che ella non manco amava me ch’io lei facesse; ma non per questo potevo io piegarla a le voglie mie, ancor che intorno a ciò usasse tutte quelle vie che io pensasse esser migliori. Il che tutto era invano: ch’io la vedevo strugger per amor mio; nondimeno star costantissima in defensione de l’onestá sua, rispondendomi sempre che molto piú presto voleva morir per amarmi che vituperarsi per contentarmi.