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atto quarto | 279 |
Giacchetto. Io so che il cardinale ha bisogno di servirsi del vostro giudizio; ma non so se per lettera o per volgare.
Pedante. Andiamo a lui; che questa mia facultate, questo mio tesauro incorruptibile, il quale non subiace a fronte capillata post haec occasio calva (parlo delle lettere e della latinitade di cui ho fatto acquisto con notturne e diurne vigilie), sono per espromere laeto vultu et espendere alle occorenzie di Quella, cioè di Sua reverendissima Signoria, la quale può dirmi: — Sic volo, sic iubeo. —
Giacchetto. Ella è pure una crudel cosa la pedantaria di questo bufolo.
Pedante. Ideo come è il tuo nome?
Giacchetto. Giacchetto, a’ piaceri di Quella.
Pedante. Giacchette mi suavissime, quando a te piace, ambuliamo.
Giacchetto. «Il servigio che si fa presto vai duo tanti», disse mastro Tignoso da Bologna.
Pedante. Verum est. È questa la semita?
Giacchetto. «Semita»? Pur su la paglia! Non v’ho pregato io che parliate alla carlona?
Pedante. Verum; et ita est, mi Tyro. Ma io ho si faconda lingua in exprimere quicquid in buccam venit con latino sermone che m’era scordato della promessa. «Semita» è quello istesso che è «calle» e «strada».
Giacchetto. Ora io v’intendo. Drizzatevi a quest’altra, che ci saremo a un tratto. Spettatori, io vi fo sapere che questo pedante è nemico delle donne ed è un gran tristo.
Pedante. Ove sei tu, dulcissime Giacchette?
Giacchetto. Andate pur costá, che io vi sono dietro visihilium et invisibilium e vi seguo cosí di lontano.
Pedante. Perché di lontano? Credi tu che io sia un «noli me tangere»?
Giacchetto. Per farvi l’onore che si conviene a un pecora par vostro.
Pedante. Per tua grazia.