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atto quarto | 273 |
Valerio. Voi m’avete dimandato di Flam minio e dovevate dimandarmi di Camilla, che importa piú; di cui v’ho detto tante volte.
Messer Cesare. O Dio, fa’ che non ci sia alcun male da quest’altro canto. Che vuoi tu inferir di Camilla? Dillo in una parola.
Valerio. Non vi dissi io da prima, padrone, che lasciaste da parte gli amori, perché essi non si convenivano alla vostra etá, e che attendeste alle cose che v’importavano piú? Ecco che l’effetto vi ha fatto conoscere che io non diceva per vostro male.
Messer Cesare. Or dimmi ciò che tu ne sai, in tua malora, e non mi tener piú sospeso.
Valerio. Camilla se n’è fuggita; Camilla ha sgombrata la casa; Camilla vostra figliuola è ita con quel furfante e ignorante spagnuolo di cui tante volte io v’ho fatto accorto dandovi a veder quello che ne poteva avenire. Ma voi ve ne ridevate delle mie parole. M’avete voi inteso?
Messer Cesare. Oh misero me! Ben mi veggio oggi ruinato del tutto. Ben sono io il piú sventurato uomo del mondo, dove, pure ora, mi parea d’essere il piú felice. Sai tu certo?
Valerio. Io l’ho veduta con quest’occhi; e mi sono affaticato quanto ho potuto d’impedirle questo suo disegno. E poco meno che io non ci son stato ucciso.
Messer Cesare. Dunque, t’era dato tempo di riparare a questa. vergogna e non l’hai fatto?
Valerio. Volesse Iddio che io l’avessi potuto fare! Ma intenderete in casa il tutto piú distesamente; che troppo oggimai il fatto è palese e non mi par che stia bene di piú publicarlo con parole qui in istrada. E, come l’arete inteso, conoscerete se io avea tempo da ripararci.
Messer Cesare. Era la fante consapevole di tal cosa?
Valerio. Penso che si.
Messer Cesare. Ahi misero me! Picchia all’uscio, che entriamo in casa; che io mi sento scoppiar di dolore.
Valerio. Tic toc, tic toc. Commedie del Cinquecento - li. 18