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atto quarto | 271 |
Valerio. Ecco che quel gaglioffo del parasite l’averá ingannato d’un’altra maniera di quello che io aveva ordinato, per l’offesa maggiore. Oh povero vecchio!
Messer Cesare. In fine, la mia sará stata una comedia, poi ch’ella è fornita in bene.
Valerio. Pur che non ci fosse il contrario!
Messer Cesare. Per certo, io non arei mai creduto che alcuno potesse tanto assomigliare altrui come costui s’assomiglia a Livia. Sono novelle quelle di Riciardetto e di Bradamante che scrive l’Ariosto. Ho tócco e veduto il tutto e a pena posso credere che egli non sia lei. E pure è maschio. In fine, le venture mi corrono drieto.
Valerio. Si, se le disgrazie si debbono chiamar venture.
Messer Cesare. E adesso io posso bene esser certo d’aver ciò che io voglio, poi che ella a questo effetto ha mandato il fratello, per non metter l’onor suo a discrezione di quel parasite furfante. E, a dire il vero, io correva con troppa fretta. Ma ella n’è ben stata savia.
Valerio. Si, ad aver saputo farsi -**arito Flamminio.
Messer Cesare. Ma che dirá come vedrá l’anello?
Valerio. Ora egli m’ha veduto. Debbo dirlo o no?
Messer Cesare. Valerio, che fai tu qui fuora? ove è Flamminio? Non t’aveva veduto.
Valerio. E voi dove séte stato con Livia?
Messer Cesare. Non cercar di cotesto, che non s’appartiene a te; e respondimi a quello che io ti dimando.
Valerio. Oh poveretto voi! Dove è la riputazione de’ vostri anni?
Messer Cesare. Tu non vuoi fornire con questa tua lingua, temerario, se non mi fai toglier bando di Roma?
Valerio. Poveretto, dico. Voi séte tradito da ogni parte e parvi d’aver fatto guadagno.
Messer Cesare. Tradito di che? quai tradimenti sono questi? Fa’ che io gli sappia.
Valerio. Il vostro caro parasite, il vostro consigliere, il vostro fa - il - tutto v’ha pure uccellato, poverino!